9 aprile 2019

La tempesta di sabbia


La tempesta di sabbia, di Elite Zexer , 2016 (Isr.) 
Gran premio della giuria Sundance F.F. 2016. Su Netflix.


 

In un villaggio beduino nel sud di Israele, Jalila organizza amareggiata il matrimonio del marito con la seconda moglie più giovane di lei. La figlia maggiore Layla si vede negare il permesso di sposare il giovane che ama ed imporre un matrimonio combinato frettolosamente dal padre.



Donne che subiscono la tradizione anche se non del tutto in silenzio. Tentano di opporsi ma non c'è soluzione facile per loro. Un'ingiustizia potrà essere sanata da un altro sacrificio femminile. Storia di donne da un mondo odierno ed arcaico dove la parola "dovere" si scontra inevitabilmente contro ogni pretesa di "volere". Anche il patriarca, sebbene potenzialmente padre amorevole e marito affezionato, sembra inciampare testardamente nella tradizione senza capacità di decidere diversamente dalla consuetudine. 


Secco e sobrio, dramma senza eccessi, ritmo lento, è un film d'esordio della regista Zexer che lavora con poco budget : molti primi piani , alcuni campi lunghi ad abbracciare un contesto ristretto di baracche e panni stesi.
Si spazza e si lava in continuazione ma sabbia e polvere rientrano in casa e sugli abiti senza soluzione di continuità , ricoprendo tutto di uno strato antico che pare inamovibile.
Consiglio la visione.


7 aprile 2019

Cosa dirà la gente

Cosa dirà la gente, di Iram Haq, 2017 (Norvegia, Germania, Svezia)



Attenzione, spoiler.


Nisha , 16 anni, è figlia di immigrati pachistani ad Oslo e crede di potersi comportare come i suoi coetanei norvegesi. La frequentazione di un ragazzo norvegese crea disonore e scandalo nella comunità pachistana e nella sua famiglia che decide di spedirla forzatamente in Pachistan dagli zii per la dovuta punizione e "rieducazione". Non può più rimanere, chissà cosa dirà la gente.




Qui incontrerà la stessa sorte , ma in peggio, umiliata dalla corrotta polizia del buoncostume. 

La famiglia degli zii la ripudia , Nisha ha disonorato anche loro. Chissà cosa dirà la gente.
Il padre le chiede di suicidarsi gettandosi da una rupe quale soluzione ottimale.




La "testarda" Nisha non si butta e il padre la riporta desolato e disperato ad Oslo. L'unica soluzione è un matrimonio combinato con un uomo pachistano canadese che Nisha vede una sola volta in videoconferenza sul laptop presenti  famigliari ed intermediari. Il contratto è immediatamente concluso. La ragazza vivrà con un marito benestante, niente istruzione, a casa a fare figli.


In questa vicenda, Nisha si ribella una sola volta inviando un messaggio ad un'amica mentre è in partenza per il Pachistan : "mi hanno rapita". 

Al suo ritorno in Norvegia gli assistenti sociali intervengono ma Nisha è ormai sottomessa e mente su tutto.

La scena finale lascia ben sperare in una decisiva risoluzione di "fuga" in extremis. Vediamo Nisha correre in mezzo alla neve e speriamo che non si volti più indietro, forse diretta verso quella casa-famiglia che le era già stata saggiamente proposta in passato da scuola e servizi sociali.



La regista Iram Haq ha dichiarato di aver vissuto una vicenda simile in gioventù ma , a differenza della protagonista, di essersi trovata bene in Pachistan a scoprire le proprie radici culturali.


Per Nisha invece di "culturale" non v'è nulla, solo barbarie sia nella comunità di immigrati ma mai integrati in Norvegia che in Pachistan dove di bello ci sono solo gli aquiloni e i colorati mercati di quartiere.


Sceneggiatura e regìa molto caute e timorose di "cosa dirà la gente" e di far fare brutta figura alla propria "gente". Decisamente si poteva osare di più. 
Ma ,si capisce, oggi come oggi è importante preoccuparsi in aggiunta di cosa potrebbero dire i buonisti occidentali ,prima e ancora e molto peggio, dei propri connazionali immigrati. Forse la cautela ,tutto sommato, è comprensibile,  in questo senso.

Film che merita la visione, seppur privo dell'impatto emotivo di, per esempio, "La bicicletta verde" o di "Mustang". 

6 aprile 2019

Noi (Us)

Noi (Us), di Jordan Peele, 2019



Tecnicamente virtuoso e ottimamente recitato fallisce tuttavia nel complesso. I 15 minuti iniziali promettono molto bene con il trauma infantile nella casa degli specchi e il ritorno di Adelaide da adulta (con famiglia middle-class) sul luogo del mistero, la comparsa inquietante dei "doppi" misfits rosso-vestiti .
Purtroppo il resto delude.

Servono a poco Jeremiah 11:11 ,conigli bianchi, catene umane di solidarietà e relative evocative cesoie mannare: il socio-politico-qualcosa non si esplicita.

Nè funziona granchè come mero horror chè alla lunga anche il pubblico appassionato del genere si annoia e non ci capisce un'acca.
Us è una narrazione confusa che deraglia man man che Peele cerca di espanderla, esplorarla ed esporre il suo concetto di base.
Non è una storia ma più che altro un'idea incompleta , una bozza ambiziosa con troppi spunti e filoni narrativi che non riescono a collegarsi in un senso compiuto a causa di una struttura intrinsecamente pasticciata che non sa dove andare a parare.

1 aprile 2019

Border

Border, di Ali Abbasi , 2018. Premio "Un Certain regard" a Cannes 2018


Un fantasy/thriller/horror dal passo lento , troppo goffo per affascinare con il mito, coinvolgere col mistero o spaventare con il mostruoso.
Ci sono due trolls in un mondo di umani e tanto dovrebbe bastare per imbastire il consueto pippone sulle problematiche relative alla diversità , all'intolleranza e all'emarginazione. Come se ormai il 90% dei fims in circolazione non trattasse ossessivamente lo stesso tema. E qui va già subito a farsi benedire l'originalità. Rimane la modalità di svolgimento del tema e qui sia Abbasi che il co-sceneggiatore Lindqvist tentano di sbizzarrirsi interpretando la mitologia nordica del troll a modo loro. Ma anche un fantasy non deve pigiare troppo sul pedale dell’improbabile. E Border lo fa, scadendo spesso nel ridicolo. Nonostante la predisposizione del pubblico alla "sospensione dell'incredulità" di fronte ad una "fiaba" ,  ad abusarne troppo si rischia di annoiare il pubblico.
E Border non riesce a stupire più di tanto.


La sotto-trama crime di caccia alla pedofilìa strizza l'occhio all'indignazione collaudata e sicura da parte del pubblico : gli umani sono i veri mostri, che fanno del male persino ai piccoli della propria razza.
Senonché Vore non si rivela molto migliore dei deprecabili umani. Anzi, senza voler fare troppo spoiler, la sua vendetta pare più crudele del danno subito.
Tina è il personaggio con cui dovremmo identificarci , la protagonista del percorso di scoperta della propria identità,  dell'appropriazione e rivendicazione dell'appartenenza,  perchè lei non è una donna deforme con un cromosoma difettoso, come le è stato fatto credere.
Ma davvero Tina ci guadagna qualcosa in questo percorso ? È una persona integrata, con un lavoro in cui eccelle grazie alle sue peculiari capacità , è amata dall'anziano padre, rispettata da vicini e colleghi proprio per la sua stranezza ,  nonostante la sua diversità. Ha un rapporto anomalo ed intenso con la natura (cani esclusi).
Certo le manca l'amore , la sua diversità anche fisiologica glielo impedisce. 


Ci affascina l'incontro con Vore , individuo della stessa specie di Tina ma la poesia del contatto  animalesco con la natura e dell'erotismo non umano sono una breve parentesi di gioia con un prezzo troppo alto da pagare. 
Tina ha una morale che non comprende l'abuso sugli indifesi.
La scena finale con la valigia sul portico e il suo prezioso quanto impegnativo contenuto, compreso l'invito ad unirsi al gruppo di suoi simili in Finlandia non è vera catarsi e appare finale più "telefonato" che meditato.
Memore di quella perla di Lasciami entrare diretto da Alfredson e scritto da Lyndqvist mi aspettavo di più.
Questo Border non ne ha la forza , meno che mai la poesia . È piatto , un indie che merita solo un grosso applauso alla brava Melander e all'ingegnoso trucco , quello sì riuscito.  
Film pasticciato che si dimentica presto.