27 novembre 2018

L'insulto

L'insulto , di Ziad Doueiri , 2017. Coppa Volpi Venezia 74 , nomination Oscar 2018.


Ben sceneggiato , girato e recitato è soprattutto un film utile a ricordare o (specie per i più giovani) ad apprendere ed approfondire i conflitti che tormentano ancora oggi il Libano , paese diviso tra cristiano-maroniti, palestinesi e minoranza ebraica.

Il cristiano Toni e il rifugiato palestinese Yasser si scontrano per una banale (ma solo apparentemente) lite che assurge , in progressiva escalation  , prima  a dramma giudiziario e infine a tensione socio-politica con tanto di scenario di scontri in piazza fra filo-palestinesi e cristiani.

Ho trovato il film piuttosto sbilanciato per 2/3 del tempo in favore di Yasser, emblematica vittima palestinese a 360○. Toni è invece caratterizzato un pò troppo come estremista fanatico.
La sotto-trama dei due avvocati di parte avversa padre e figlia  mi è parsa abbastanza didattica e scolastica : ideali di giustizia comuni ma diversamente declinati nelle due generazioni.

La svolta finale nell'ultimo terzo del film mette tuttavia "la bilancia in equilibrio" e allarga la prospettiva per il verso giusto (entrambe le parti hanno subito guerra e massacri) definendo l'insulto storico e l'odio reciproco mai sopito come equivalenti. Sottolineando infine la necessità di andare avanti guardando oltre e tentando una ,seppur difficile, riconciliazione nazionale.

Le intenzioni del regista e sceneggiatore sono buone e il film è interessante per noi occidentali, pubblico target del film . Del resto il regista è molto più americano che libanese sia per esperienza artistica (ha lavorato con Tarantino) che per vita personale. Dal film ho ricavato la sensazione che la sua posizione ideologica sia ancora un pò sbilanciata verso quella "sinistra filo-palestinese" che è stata la sua matrice di partenza (come dichiara lui stesso nell'intervista).

La genesi dell'idea per il film è interessante di per sè , per capire meglio regista e film. Qui sotto riporto il link all'intervista al regista.
Un film da vedere , un regista che non ha rilevanti punti in comune con Farhadi , a mio avviso:  approccio meno "intellettuale" rispetto a quest'ultimo , forse meno complesso, più ottimista e più ingenuo. Intervista al regista

17 novembre 2018

La ballata di Buster Scruggs

di Joel & Ethan Coen , 2018. Premio sceneggiatura Venezia 75 ,dal 16 Nov. su Netflix (no spoiler)



Magistrale ritorno dei fratelli più creativi , istrionici , intelligenti, del cinema.

Tutti gli stereotipi del western classico (ri)visitati con impagabile stile e gusto sempre fuori dagli schemi. I Coen, insomma, in sei racconti perfetti , veloci , di gran classe.



Si inizia con il canterino Buster dalla pistola facile e la lingua veloce (Tim Blake Nelson ) e avanti con lo sfortunato cowboy (James Franco) : e subito si sorride alla maniera dei Coen.



Ci si commuove con Liam Neeson ed Harry Melling in "Metal Ticket" , racconto colto e brutale dal retrogusto amaro , con vena surreale. Forse il migliore , secondo me.



Incanta per la fotografìa curatissima di paesaggi splendidi  "All Gold Canyons" impreziosito dal volto (e dalla voce-gratuggia) di Tom Waits  e da un pizzico di poesìa insolita . Almeno finchè dura... che troppo sentimentalismo i registi non ce lo consentono.



"The gal who got rattled" è il momento più romantico e tragico : una carovana di pionieri  la dolce , sola ed ingenua Alice e l'ovvio attacco dei nativi Comanches.
Il racconto più debole , a mio avviso.



Chiude meditativa , filosofica ed infernale la diligenza  di "The mortal Remains". Perfettamente nelle "corde" dei Coen. Bellissimo episodio finale.




È di nuovo una perla di cinema di qualità, il premio a Venezia è del tutto meritato , i Coen sono al meglio. Una pellicola imperdibile, vederla è un gran piacere.

IMDb=7,4/10  R.T=91% critica.


15 novembre 2018

Lucky

Lucky di John Carroll Lynch, 2017


Un pizzico di surrealismo alla David Lynch e un altro di straniamento alla Jim Jarmusch e la pellicola da festival è pronta. Che sia anche valida, questo è un altro discorso.
Sebbene il regista sia solo un omonimo , l'ispirazione lynchana trasuda da ogni fotogramma e battuta.

Il novantenne Lucky ciabatta in mutandoni e flanella o , in alternativa, in jeans e cappello da cowboy lungo una routine giornaliera sempre uguale con doveroso sfondo di paesotto al confine messicano tutto polvere e cactus e tutti che conoscono tutti. Nessuno che abbia molto da fare. Fotografato benissimo, questo bisogna concederlo.

Un pò di ginnastica dolce e 3 pacchetti di sigarette al giorno, riflessioni esistenziali sui generis al bar e cruciverba. Confessioni estemporanee ad un enorme telefono rosso. Ah, ci sono anche Lynch attore e una testuggine (non è una tartaruga, per carità! ) sotto trama d' "umorismo" squisitamente lynchano. Per chi lo apprezza , io no.
Un paio di scene da "lacrimuccia" : alla festa con mariachi e , in chiusura, con la testuggine Roosvelt in primo piano.

Ci tocca riflettere su questioni profonde.
1) Distinguere fra "alone" e "lonely" in primis. Ma a me Lucky sembra entrambe le cose, che gli piaccia ammetterlo o no. Con un bel pò di paura di morire e tanto vuoto affettivo intorno a sè. Casomai la differenza su cui riflettere sarebbe fra "compagnia" ed "affetti" , secondo me.
2) "Realism is a thing" : non si discute, sul dizionario è un sostantivo. Vabbè....
3) "The soul doesn't exist" e allora "non ci resta che sorridere". Ok.
E la noia striscia implacabile.

È un grande omaggio a Harry Dean Stanton, iconico come sempre. Questo caratterista dalla lunga ed emerita carriera meriterebbe però un film migliore , proprio al suo primo (o forse secondo) come personaggio principale e suo ultimo prima di morire.